La Diffusione dell'Astrologia Araba nell'Europa Medievale
Diffusione degli Arabi in Europa
A partire dal X secolo le conoscenze arabe cominciano a diffondersi anche se timidamente in Europa, ne è una testimonianza la richiesta di Gerberto di Aurillac, il futuro papa Silvestro II, a Lupito di Barcellona affinché gli spedisse il trattato astrologico da lui tradotto. All'inizio del XII secolo cominciano a circolare le prime copie delle tavole astronomiche e di alcuni scritti astrologici arabi, primo fra tutto l'Introduzione all'Astrologia di Abu Ma'sar tradotto da Adelardo di Bath.
In questo periodo il Rinascimento del XII secolo si poggia sui grandi traduttori dell'epoca come Gerardo da Cremona, che tradusse più di 87 trattati dall'arabo al latino, Giovanni da Siviglia, appassionato e cultore dell'astrologia che tradurrà un folto numero di testi, Platone da Tivoli traduttore di Meshallah e del Quadripartito di Tolomeo e i due Roberto da Chester e Herman di Dalmazia indotti da Pietro il Venerabile a tradurre il Corano, al-Kindi, l'Algebra di al-Kwarizmi nonché alcuni scritti alchemici come il testamento di Morieno Romano.
Grazie all'azione di tutti questi traduttori le opere astrologiche arabe di Masallah, Abu Ma'shar, al-Kindi, al-Battani, Tabit ibn Qurra, al-Qabisi, etc. si diffonderanno in tutta Europa dando un forte impulso all'astronomia, all'astrologia, alla medicina, alla filosofia, all'alchimia e in generale a tutte le scienze padroneggiate dagli Arabi.
Alberto Magno
Con la diffusione degli scritti Arabi divenne ben presto necessario uno scritto che fornisse una guida interpretativa di questi scritti e permettesse di discriminare gli scritti affini e ammissibili alla genuina dottrina cristiana e quelli invece contrari a questa. Nasce insomma l'idea di ripulire l'astrologia sia da tutte quelle pratiche necromantiche ed esecrabili dei testi che stavano circolando, come pure l'idea di precisare questo rapporto fra l'uomo e il proprio destino, fra astrologia e libero arbitrio.
A entrambe queste esigenze risponde Alberto Magno. Per la prima con lo Speculum Astronomiae, uno scritto del 1270 generalmente attribuito ad Alberto Magno e che principalmente distingue i libri, le pratiche e le immagini astrologiche lecite da quelle illecite, per difendere e ripulire l'Astrologia virtuosa da numerosi scritti necromantici di dubbia provenienza che al momento proliferavano in Europa.
Per la seconda, nonostante il tema del libero arbitrio sia anche uno dei temi fondamentali trattati nello Speculum Astronomiae, tuttavia la posizione più limpida di Alberto Magno sull'argomento è nettamente espressa in altri libri la cui paternità è assicurata come nel suo libro sulla Natura ed Origine dell'Anima:
«Negli uomini esiste una duplice molla di azione, ovvero la natura e la volontà; la natura è per sua parte regolata dalle stelle, mentre la volontà è libera; tuttavia a meno che non resista, viene trascinata dalla natura e diventa meccanica»
Dante e Cecco d'Ascoli: I Poeti Astrologi
Alla posizione di Alberto Magno sulla centralità dell'uomo e il libero arbitrio si rifaranno i grandi poeti astrologi del primo Rinascimento come Dante e Cecco d'Ascoli. Dante addirittura metterà Alberto Magno nel quinto cerchio del Paradiso, nel cerchio del Sole e degli Spiriti Sapienti.
Abbiamo deciso di riportare i due poeti come esempio della nuova visione dell'astrologia nel periodo pre-Rinascimentale perché entrambi incarnano perfettamente questa nuova idea dell'Astrologia, lontana da ogni fatalismo e aspetto divinatorio e sintetizzano questa loro visione dell'Astrologia in due scritti immortali che li hanno consacrati tra i più grandi poeti italiani: Dante Alighieri con la Divina Commedia e Cecco d'Ascoli con l'Acerba.
I due scritti sono stati spesso considerati antitetici e in contrapposizione, sebbene la critica moderna ora abbia una visione più obiettiva sulla faccenda avendo messo in discussione la paternità delle terzine più dure che comparivano proprio sull'Acerba.
Le due opere suggeriscono una contrapposizione perché incarnano perfettamente due generi che da una parte sono antitetici, ma dall'altra sono complementari. La prima la Divina Commedia è un'opera profondamente mistica e visionaria, la seconda, l'Acerba, è un'opera così lucida e scientifica da sembrare un trattato di saggistica.
Tale differenza la rileva lo stesso Cecco d'Ascoli nell'Acerba, nelle famose terzine nelle quali canzona Dante per la mancata chiarezza e lucidità scientifica, per aver ammantato la sua dottrina "sotto il velame de li versi strani" a differenza di lui, Cecco d'Ascoli, che invece dichiara tutto alla luce del Sole:
Qui non si canta al modo delle rane,
qui non si canta al modo del poeta
che finge immaginando cose vane;
ma qui risplende e luce ogni natura
che a chi l'intende fa la mente lieta.
Qui non si sogna della selva oscura.
Acerba, Libro IV cap XIII
La distinzione fra i due stili e modi di concepire l'arte poetica era a sua volta stata rilevata in precedenza da Dante che già in un sonetto a lui dedicato gli suggeriva di esser più vago nelle sue affermazioni e nell'esporre le sue dottrine: «E se di tua virtù non porgi regola / sarai uccellato come tordo in pegola». Ma Cecco d'Ascoli lo ribatteva riprendendo la stessa rima e chiarendo che lui fa bene ad ammantare il tutto, ma quello è uno stile che a lui non appartiene.